mercoledì 23 ottobre 2013

Simone Cristicchi regala una rosa (immensa) a Trieste

Ieri sera al Teatro Rossetti di Trieste un'ovazione di pubblico ha salutato la prima di 'Magazzino 18', lo spettacolo di Simone Cristicchi dedicato al dramma dell'esodo degli italiani dall'Istria dopo la seconda guerra mondiale. 

Ci voleva un ragazzo romano cantastorie con la sensibilità e la bravura di Simone Cristicchi per raccontare ai triestini una storia che nemmeno i triestini saprebbero raccontare così bene. Ci voleva lo sguardo di un 'foresto', con la testa e la memoria libera da coinvolgimenti personali o pastoie politiche, per parlare e cantare con le giuste parole (e la giusta distanza) di esodo giuliano-dalmata del secondo dopoguerra, di 350mila italiani costretti ad abbandonare le loro terre dell'Istria occupate dalla Jugoslavia di Tito, di foibe, campi profughi, terre di confine contese e martoriate, rapporti tra italiani e sloveni, tra ideologie che in nome di un'idea son passate sopra la testa di migliaia di persone. 

C'è stato un tempo e un luogo geografico, il confine orientale tra il 1943 e il 1954, in cui essere italiano significava automaticamente essere fascista. E se magari volevi rimanere comunista? Rischiavi di fare la fine dei duemila monfalconesi del contro-esodo. Quelli che vollero provare a tornare indietro, a casa loro, per vivere la loro fede politica assieme agli altri comunisti, ma finirono a Goli Otok, l'Alcatraz della Croazia. Un nome che non compare da nessuna parte. In nessun dépliant turistico delle belle spiagge della Dalmazia. In nessun libro di storia. Una memoria dimenticata come tante altre riportate alla luce dal 'Magazzino 18' di Cristicchi, che entrando nei duemila metri quadri di oggetti accatastati nel porto Vecchio di Trieste, segno di un enorme trasloco involontario, entra nelle viscere di una storia ancora dolorosissima perché negata o misconosciuta, e restituisce a chi l'ha vissuta in prima persona un racconto dal potere taumaturgico. Curativo. Liberatorio. 

Verrebbe quasi da dire che la vera liberazione Trieste l'ha sperimentata ieri sera, alla prima dello spettacolo, preceduta da polemiche che, di fronte ad un lavoro serio, documentato ed appassionato, hanno dimostrato tutta la loro inconsistenza. Mai si era vista una simile ovazione di pubblico nel Teatro Rossetti: applausi e 'bravo' a scena aperta, e alla fine tutti in piedi per un enorme, corale abbraccio di gratitudine e di affetto per chi ha saputo raccontare, cantare e rivivere un dramma rimosso. Forse perché troppo complicato da raccontare. "E' come una matrioska, tiri fuori una storia e ne viene fuori un'altra ancora", dice l'archivista Persichetti-Cristicchi che rappresenta l'italiano medio, e pure medio basso. Quello che magari nemmeno sa mettere l'accento giusto sulla parola esodo. Giuliano-dalmata. "E chi è 'sto Giuliano Dalmata?". 

Tutto ciò che nella periferia dell'estremo Nord-Est è scontato, o ancora fonte di scontri, divisioni, odi sotterranei e paure e sospetti, è diventato soggetto teatrale. E' stato liberato, come quella rosa regalata dallo stesso Cristicchi quando vinse il festival di Sanremo nel 2007. Ed è vero, come ha ricordato il regista Antonio Calenda alla fine, che il teatro ha compiuto il suo sortilegio. La magia di rappresentare una sofferenza profonda, che una volta diventata racconto condiviso, può aiutare a voltare pagina. E' questa la catarsi: guardo, mi vedo rappresentato, mi purifico, e posso così guardare avanti. Ed è questo l'augurio che molti di noi, triestini acquisiti o 'patocchi', si fanno. Che questo spettacolo, con la grazia che solo la vera arte possiede, compia il miracolo di liberare una memoria, facendola diventare patrimonio comune di una nazione e liberando al tempo stesso i triestini da un peso troppo pesante da portare da soli.

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